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Razzabastarda - Recensione

17/11/2012 | Recensioni |
Razzabastarda - Recensione

Razzabastarda. Una parola sola. Quando appartieni a questa “razza” hai poche vie d’uscita. Puoi solo colpire e incassare pugni.
Ultimo film in concorso nella sezione “Prospettive Italia”, Razzabastarda segna l’esordio alla regia di Alessandro Gassman che del film è anche interprete. Adattamento della pièce teatrale “Cuba and his Teddy Bear” di Reinaldo Povod portata in scena negli Stati Uniti da Robert De Niro nel lontano 1984 e poi in Italia dallo stesso Gassman col titolo “Roman e il suo cucciolo”, il film trasforma una vicenda di un padre spacciatore immigrato cubano nel Bronx e di suo figlio tossicodipendente nella storia di un padre rumeno con un figlio cresciuto in Italia.
Un rapporto strettissimo lega Roman (Gassman), migrante rumeno giunto in Italia trent’anni fa, e suo figlio diciottenne Nicu (Giovanni Anzaldo), chiamato “cucciolo”. Roman vive in periferia, ha una casa abusiva, un magazzino disordinato, un vecchio cane. Sua moglie lo ha lasciato 18 anni fa. Roman spaccia coca e vive solo per suo figlio, è per lui che vorrebbe smettere con la droga. Me è sempre per lui che non ha smesso, per dargli la possibilità di studiare e di crearsi un avvenire migliore. Ma può davvero un ragazzo che ha sempre respirato certi ambienti e certe dinamiche desiderare di essere qualcosa di diverso? Nicu non può vivere in un mondo diverso e il suo stretto legame con il “Talebano”, tossicodipendente e spacciatore che diviene il suo mentore, lo porterà a vivere eventi drammatici per lui e per suo padre. 
Un mondo nero, duro, difficile, visto dal di dentro, inquadrato dal basso e illuminato da tinte cupe in un freddo bianco e nero, Razzabastarda parla di una razza o forse più semplicemente della razza umana.
Il punto di forza del film è una sceneggiatura direttamente ispirata al lavoro teatrale collaudato da tre anni di successi e adattato per il grande schermo dallo stesso Gassman con Vittorio Moroni, “Roman (ha la sua radice rumena già nel nome) e il suo cucciolo”, un ragazzo indifeso agli occhi di un padre che sente l’obbligo di stendere la sua ala protettiva.
Gassman decide (non a caso) di portare prima sulle tavole dei palcoscenici e poi al cinema una storia forte di padre e figlio, o per meglio dire di padri e figli. Già, perché il “cucciolo” sembra in realtà avere due padri. Il padre naturale, di cui però rifiuta quelle attenzioni ritenute eccessive, e un altro padre, conosciuto da tutti come “il Talebano”, un tossico colto (cita Rimbaud e Thomas Bernhard), intelligente, sottilmente seduttivo, che esercita sul ragazzo un fascino superiore a quello che il vero padre, troppo irruento e impulsivo, non riesce ad avere su di lui.
Il film si fa apprezzare per alcune scelte coraggiose di regia, prima fra tutte un’indovinata scala cromatica. Il film è girato in un bianco e nero quasi “sporco” che in questo contesto non può non caricarsi di forte valenza drammaturgica indicando un mondo cupo e senza colore. Colore che viene riservato solo ai flashback in cui dominano tinte sanguigne e dai caldi toni ambrati.
Le musiche accompagnano efficacemente il crescendo drammatico del film trovando il giusto coronamento nella struggente canzone dei titoli di coda cantata da Francesco Renga.
Gli attori sono tutti perfettamente calati nei personaggi con una nota di merito particolare per il giovane Giovanni Anzaldo, un volto che, come ha sottolineato il regista, sarebbe piaciuto a Pasolini. A questo proposito, più che di lontani echi pasoliniani (a cui il regista ammette però di non aver pensato in maniera diretta), il riferimento più prossimo è a un film come L’odio di Mathieu Kassovitz, definito da Gassman un lontano cugino di Razzabastarda.
Nel complesso un’opera ben scritta, ben girata, ben recitata. Non male per un esordiente… con trent’anni di carriera alle spalle.

Elena Bartoni
 

 


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